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Obbligo dell’esercizio del potere di controllo del socio

A cura dell’avv. Marco Masante

All’interno della disciplina sulla responsabilità degli amministratori si colloca la disposizione in ordine ai poteri di controllo dei soci che si può distinguere in un diritto all’informazione ed un diritto alla consultazione.

In particolare l’art 2476 c.c. definisce al primo comma i presupposti sui cui si fonda la responsabilità dell’amministratore stabilendo che: “gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo per l’amministrazione della società” e al terzo comma affermando che:“l’azione di responsabilità contro gli amministratori è promossa da ciascun socio, il quale può altresì chiedere, in caso di gravi irregolarità nella gestione della società, che sia adottato provvedimento cautelare di revoca degli amministratori medesimi.”

Tuttavia solo a seguito di una preventiva ed adeguata attività di informazione sull’andamento della gestione e sulle operazioni compiute dagli amministratori, il socio può valutare adeguatamente l’opportunità di prevedere un’azione di responsabilità.

In ragione di questo il secondo comma dell’art. 2476 prevede che “i soci che non partecipano all’amministrazione hanno diritto di avere dagli amministratori notizie sullo svolgimento degli affari sociali e di consultare, anche tramite professionisti di loro fiducia, i libri sociali ed i documenti relativi all’amministrazione”. Ne consegue che i soci non-amministratori hanno un potere di controllo facoltativo derivante dalla necessità di garantire un buon andamento della società mentre gli amministratori hanno l’obbligo di agire in modo informato, obbligo che deriva dal ruolo che essi ricoprono e dalle relativa responsabilità che su di essi grava[1].

Il potere di controllo si sostanzia nell’esercizio del diritto all’informazione che legittima il socio a richiedere agli amministratori notizie che riguardino gli affari della società ovvero tutto ciò che attiene al patrimonio e alla gestione dell’impresa, i fatti fondamentali per la determinazione e la ripartizione degli utili, ma anche i rapporti giuridici ed economici interni alla società e nei confronti di terzi.

In riferimento alla fase di liquidazione della società, si ritiene che i diritti permangano in capo al socio, poiché continua a sussistere la gestione del patrimonio sociale che deve essere sottoposta a controllo, in virtù del diritto alla ripartizione dell’attivo della liquidazione[2].

Il diritto di consultazione si attua invece riconoscendo la possibilità di controllare tutti i documenti relativi all’amministrazione, includendo anche le scritture contabili, tra i quali, a titolo esemplificativo: il libro giornale, il libro degli inventari, i registri tenuti ai fini dell’Iva o in osservanza di altre disposizioni di legge[3]. Come per il diritto all’informazione, anche il diritto di ispezionare i documenti non è condizionato da un punto di vista temporale, ma può essere esercitato in ogni momento della vita sociale.

Data l’ampiezza e l’incisività del poter di controllo sono previsti comunque dei limiti, in primo luogo dati dal principio di correttezza (art. 1175 c.c.) e buona fede (art. 1375 c.c.), che impone un necessario contemperamento dei confliggenti interessi coinvolti.

A tal proposito la giurisprudenza di merito ha affermato che “l’applicazione del principio di buona fede comporta che il diritto alla consultazione della documentazione sociale e alla estrazione di copia possa trovare specifica limitazione – attraverso l’accorgimento del mascheramento preventivo dei “dati sensibili” presenti nella documentazione, quali, ad esempio, i dati relativi ai nominativi di clienti e fornitori – laddove alle esigenze di controllo “individuale” della gestione sociale – cui è preordinato il diritto del socio ex art. 2476 cc secondo comma – si contrappongono non pretestuose esigenze di riservatezza fatte valere dalla società”[4].

In tale ottica la responsabilità gestoria del socio bilancia l’ampia facoltà dei soci di controllo, partecipazione e influenza sulle scelte gestionali.

 


[1]A. Angelillis e G. Sandrelli, Articolo 2476 – Responsabilità degli amministratori e controllo dei soci, in Commentario alla riforma delle società, diretto da P. Marchetti– L. A. Bianchi – F. Ghezzi – M. Notari, Società a responsabilità limitata, a cura di L. A. Bianchi, Artt. 2462-2483 c.c., Egea, Giuffrè, Milano, 2008, p. 696-697.

[2]M. G. Paolucci, Art. 2476, in Commentario del Codice Civile e codici collegatiScialoja-Branca-Galgano, a cura di Giorgio De Nova – Libro quinto: Lavoro art. 2462-2483, A. L. Santini, L. Salvatore, L. Benatti, M. G. Paolucci, Società a responsabilità limitata, Zanichelli, Bologna, 2014, p. 478.

[3]N. Abriani, La società a responsabilità limitata – Decisioni dei soci. Amministrazioni e controlli, in AA.VV. Diritto delle società di capitali, Milano, 2003 p. 334.

[4]Trib.le Milano, 22 luglio 2012, tratta dall’archivio di Giurisprudenza delle Imprese.

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La nuova riforma in materia di trattamento dati personali (Privacy)

A cura della dott.ssa Katia Garbo

Lo scorso 27 aprile 2016 è “silenziosamente” entrato in vigore il Regolamento Europeo n. 679/2016, che ha trovato diretta applicazione con decorrenza 25 maggio 2018.

Il Regolamento ha introdotto sostanziali modificazioni nella normativa di riferimento in materia di trattamento dei dati personali ed in particolare, degli obblighi in capo alle aziende che dovranno, inevitabilmente, adeguarsi a tali disposizioni.

Il processo di compliance richiederà uno studio “su misura” dello status aziendale e delle reali dinamiche aziendali e specifiche esigenze in materia di riservatezza.

Tutte le aziende, a prescindere dalle dimensioni, dovranno adeguarsi al nuovo regolamento generale dell’unione europea sulla protezione dei dati, pena l’applicazione di pesanti sanzioni

Tra le innumerevoli novità apportate dalla menzionata normativa, le aziende sono tenute:

  • ad effettuare una preventiva valutazione d’impatto sulla protezione dei dati (contenente la descrizione dei trattamenti previsti e le finalità, la valutazione della necessità e proporzionalità dei trattamenti in relazione alle finalità, la valutazione dei rischi);
  • a predisporre un’informativa trasparente, scritta (orale solo se espressamente richiesta dall’interessando, fornendo prova dell’identità con altri mezzi) e formulata con linguaggio semplice, immediato e dettagliato;
  • a nominare un responsabile del trattamento dei dati, che agirà in nome e per conto del titolare del trattamento dei dati e dovrà attuare misure tecniche ed organizzative adeguate per garantire, e poter dimostrare, la conformità del trattamento dei dati alle disposizioni regolamentari;
  • a nominare (solo in particolari casi) un Responsabile della protezione dei dati “DPO” (Data Protection Officer), che vigila sulla corretta applicazione della normativa e svolge funzioni di “intermediario” tra l’interessato e l’azienda e tra le Autorità di Controllo e l’azienda.

Il Regolamento prevede, inoltre, l’applicazione di pesanti sanzioni (civili, penali e amministrative) in capo alle aziende inadempienti che, nei casi più gravi, potranno arrivare al 4% del fatturato del titolare.

 

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La responsabilità del socio come liquidatore

A cura dell’avv. Marco Masante

La liquidazione costituisce un momento di esercizio dell’attività della società con conseguente valorizzazione dell’attività gestionale accompagnata dall’obbligo di perseguire anche in questa fase l’interesse per il quale la società è stata costituita. Da qui la rilevanza dell’informativa sulle operazioni di liquidazione.

Il liquidatore deve adottare le iniziative proprie del procedimento di liquidazione ma consentendo la conservazione dell’eventuale valore dell’impresa dato che, in base a quanto previsto dall’art. 2487 ter c.c., per fatti e circostanze successive alla messa in liquidazione della società l’assemblea può deliberare in ogni momento la revoca dello stato di liquidazione.

L’art. 2489 c.c. rubricato “poteri, obblighi e responsabilità dei liquidatori” afferma che i liquidatori hanno il potere di compiere tutti gli atti utili per la liquidazione della società. Aggiunge inoltre che essi debbono adempiere ai loro doveri con la professionalità e diligenza richieste dalla natura dell’incarico e che la loro responsabilità per i danni derivati dall’inosservanza di tali doveri è disciplinata dalle norme in tema di responsabilità degli amministratori.

I liquidatori sono tenuti a redigere il bilancio finale di liquidazione, documento che deve essere depositato presso il registro delle imprese e rappresenta l’ultima informazione contabile che precede la cancellazione della società dal registro delle imprese.

La redazione presuppone la monetizzazione di tutto l’attivo e il pagamento dei creditori ed è costituita dallo stato patrimoniale, dal conto economico e dalla nota integrativa nonché da un piano di riparto.[1]

Sotto la loro responsabilità, i liquidatori possono dar corso ai pagamenti indicati nel piano di riparto in favore dei soci subito dopo il deposito del bilancio nel registro delle imprese.

Una specifica ipotesi di responsabilità dei liquidatori verso i creditori sociali è sancita dall’art. 2491 c.c. La loro responsabilità rappresenta un’ipotesi di lesione del diritto di credito che si ravvisa laddove gli stessi abbiano effettuato il riparto pur essendo consapevoli dell’esistenza di passività anche solo potenziali. Il liquidatore di una società cancellata dal registro delle imprese può essere quindi chiamato a rispondere nei confronti dei creditori sociali insoddisfatti laddove questi dimostrino l’esistenza, nel bilancio finale di liquidazione, di un attivo dallo stesso distribuita ai soci, oppure che la mancanza di attivo sia imputabile alla sua negligenza  od inottemperanza ai doveri imposti dalla natura e dalle finalità del procedimento di liquidazione . Nel caso in cui siano state effettuate operazioni fraudolente nella fase della distribuzione dell’attivo, a tutela dei creditori danneggiati sussistono sempre i normali mezzi di conservazione del patrimonio a partire dall’azione revocatoria.[2]

Il decreto legislativo n. 175/2014 ha innovato profondamente la disciplina in tema di responsabilità dei liquidatori delle società di capitali intervenendo su alcune norme che la regolano.

Infatti nell’attuale versione dell’articolo 36 del decreto del Presidente della  Repubblica  29 settembre 1973, n. 602 primo comma: i liquidatori “(…) che non adempiono all’obbligo di pagare, con le attività della liquidazione, le imposte dovute per il periodo della liquidazione medesima e per quelli anteriori rispondono in proprio del pagamento delle imposte se non provano di aver soddisfatto i crediti tributari anteriormente all’assegnazione di beni ai soci o associati, ovvero di avere soddisfatto crediti di ordine superiore a quelli tributari. Tale responsabilità è commisurata all’importo dei crediti d’imposta che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione dei crediti”.

Viene quindi prevista la responsabilità personale dei liquidatori, nel caso in cui, salvo prova contraria, abbiano distribuito somme ai soci relative all’anno di liquidazione oppure ad anni precedenti o abbiano soddisfatto preliminarmente crediti di rango inferiore rispetto a quelli tributari.

In sostanza, è stato sancito che se i liquidatori non dovessero dimostrare di aver assolto tutti gli oneri tributari, essi stessi saranno tenuti a rispondere in proprio del versamento dei tributi dovuti dalla società estinta, nei limiti dei crediti erariali che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione dei crediti.

È necessario sottolineare che la riforma normativa non ha riguardato tanto la responsabilità personale e patrimoniale dei liquidatori, già prevista in modo pressoché identico nella versione previgente dell’art. 36 del DPR 602/73, bensì l’inversione dell’onere della prova: saranno infatti i liquidatori e non l’amministrazione finanziaria a dover dimostrare di aver gestito la fase di liquidazione secondo legge e di non aver né assegnato beni ai soci, né soddisfatto crediti di rango inferiore rispetto a quelli tributari prima di aver pagato questi ultimi.

[1] G. Racugno, Interessi, poteri e criteri nella liquidazione dei beni degli enti, in Giur. comm., 1/2014, p. 33 e ss.

[2] F. Fimmanò, Estinzione fraudolenta della società e ricorso di fallimento “sintomatico” del pubblico ministero, in Dir. pen. dell’impresa, 9 settembre 2013, p. 14.

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PAGAMENTO DEGLI STIPENDI: ADDIO CONTANTI

Sarà in vigore dal 1° luglio 2018 l’obbligo per i datori di lavoro e committenti di provvedere al pagamento delle retribuzioni con modalità e forme che escludano l’uso del contante.

Il comma 910 della legge 205/2017 disciplina le modalità di pagamento della retribuzione (nonché ogni anticipo di essa) spettante ai lavoratori da parte dei datori di lavoro e dei committenti, ammettendo le seguenti forme di pagamento:

  1. bonifico sul conto identificato dal codice IBAN indicato dal lavoratore;
  2. strumenti di pagamento elettronico;
  3. pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale dove il datore di lavoro abbia aperto un conto corrente di tesoreria con mandato di pagamento;
  4. emissione di un assegno consegnato direttamente al lavoratore o, in caso di suo comprovato impedimento, a un suo delegato. L’impedimento s’intende comprovato quando il delegato a ricevere il pagamento e’ il coniuge, il convivente o un familiare, in linea retta o collaterale, del lavoratore, purché di età non inferiore a sedici anni.

Ai commi 911 e 912 si aggiunge esplicitamente che le retribuzioni non potranno essere corrisposte in contanti direttamente al lavoratore «qualunque sia la tipologia del rapporto di lavoro instaurato», e che «la firma apposta dal lavoratore sulla busta paga non costituisce prova dell’avvenuto pagamento della retribuzione»: l’avvenuto pagamento sarà dunque dimostrato non dalla firma sulla busta paga, ma dalla copia del pagamento stesso. Chi non rispetterà questi nuovi obblighi di legge potrà essere sanzionato con una somma che va dai mille ai 5 mila euro.

Nella nuova norma sono inclusi vari tipi di rapporti di lavoro (rapporti di lavoro a tempo indeterminato e determinato part-time e full-time, contratti di apprendistato e tutte le forme di lavoro flessibile come il contratto a chiamata, i soci lavoratori di cooperative con contratti subordinati, le collaborazioni coordinate e continuative, etc.). Il divieto di pagamento della retribuzione in contanti non si applica, invece, nella pubblica amministrazione e nei rapporti di lavoro domestici.

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Linee applicative per il controllo del collegio sindacale su banche e intermediari.

A cura del dott. Diego Occari.

Le disposizioni di vigilanza emanate dalla Banca d’Italia con la Circolare n. 285 del 17 dicembre 2013 (da ultimo aggiornate con provvedimento del 21 novembre 2017) individuano specifiche linee applicative che devono essere rispettate dai collegi sindacali nelle attività di controllo su banche e intermediari finanziari.

Poiché sul collegio sindacale ricade la responsabilità massima del controllo di legalità e di corretta amministrazione dell’intermediario, le disposizioni di vigilanza stabiliscono che allo stesso debbano essere inviate le relazioni delle funzioni di controllo interno. E quindi le relazioni periodiche della funzione compliance, del risk manager e della funzione di internal audit. Le disposizioni di vigilanza precisano a tal fine che la trasmissione delle relazioni deve avvenire direttamente, e quindi senza alcun filtro da parte della Direzione. Con ciò dovendosi anche intendere la sussistenza di un vincolo di riservatezza e reciproca collaborazione tra il collegio sindacale ed i responsabili di controllo interno.

L’estensione della collaborazione tra organi di controllo non è poi limitata al solo intermediario vigilato, ma estesa anche agli organi di controllo delle altre società che compongono il gruppo a cui l’intermediario appartiene, siano esse controllate o controllanti.

A valle delle proprie attività di verifica il collegio sindacale è soggetto da un lato ad obblighi di informativa alla Banca d’Italia relativi alle irregolarità riscontrate, dall’altro ad obblighi di informativa verso l’organo amministrativo, al quale deve comunicare pure le anomalie rilevate, richiedendo l’adozione di idonee misure correttive e verificandone nel tempo l’efficacia.

Qui va compreso che la complessità dell’impianto normativo e della operatività applicabile ad un intermediario finanziario, specialmente ad una banca, è tale per cui nonostante il massimo impegno dell’organizzazione è di fatto sempre inevitabile che si verifichino in qualche area carenze e irregolarità. Le quali devono essere affrontate con impegno e determinazione, dotando l’intermediario di una organizzazione idonea a gestirle. Se quindi l’infallibilità non è di questo mondo, quel che si deve cercare è la migliore operatività e l’adeguatezza della organizzazione a presidiare ed evitare gli errori e le anomalie. E su tale ambito il collegio sindacale ha un ruolo di collaborazione attiva con la governance dell’intermediario. Esso quindi non deve intendersi come un mero segnalatore verso la Banca d’Italia, ma come il primo collaboratore e referente a presidio della compliance e della corretta amministrazione. Ed anzi si ritiene che soltanto nei casi più gravi e rilevanti, ove l’organizzazione non sia in grado di risolvere l’anomalia egli debba procedere a richiedere l’intervento dell’Autorità di vigilanza.

Non è quindi l’errore materiale ed inevitabile da segnalare, ma la carenza e la irregolarità significativa rilevante per la vigilanza. Ed in ciò il ruolo del collegio sindacale assume il suo più alto livello di complessità e discernimento. E richiede la concreta capacità di contribuire alla soluzione dei complessi problemi dell’intermediario, partecipando attivamente anche con un ruolo consultivo alla efficacia del sistema dei controlli interni.

Le disposizioni di vigilanza evidenziano:

– che l’organo con funzione di controllo deve periodicamente verificare la propria adeguatezza in termini di poteri, funzionamento e composizione, tenuto conto delle dimensioni, della complessità e delle attività svolte dall’intermediario; e che

– i componenti del collegio sindacale non possono assumere cariche in organi diversi da quelli di controllo presso altre società che siano parte del gruppo o comunque partecipate in misura rilevante dall’intermediario.

In entrambi i casi si tratta di disposizioni poste a presidio dell’efficacia dei controlli posti in essere dal collegio sindacale.

Infine le disposizioni di vigilanza prevedono che il collegio sindacale deve attuare periodici scambi di informazioni con il soggetto incaricato del controllo contabile. Al fine di assicurarsi del rispetto delle norme sulla regolare tenuta della contabilità e di condividere con esso l’esito della propria mappatura dei rischi.

Lo Studio Occari & Garbo, con il suo corpo di sindaci specializzati in intermediari finanziari è a disposizione della direzione delle banche e degli intermediari finanziari interessate a porre in essere una attività di due diligence finalizzata alla mappatura dei rischi dell’intermediario.

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Assegno di ricollocazione

A cura della dott.ssa Katia Garbo

Il 3 aprile 2018 è entrato in vigore l’assegno di ricollocazione, cioè un contributo in denaro, stanziato dallo Stato, a favore dei disoccupati, per finanziare programmi di formazione professionale che li aiuteranno a trovare un nuovo impiego e a reinserirsi nel mondo produttivo. Il  nuovo assegno di ricollocazione va a beneficio di ex-lavoratori dipendenti disoccupati da più di 4 mesi, che beneficiano del sussidio Naspi.

La richiesta dell’assegno è volontaria e il lavoratore può presentarla sul portale internet Anpal.gov.it  o presso un Centro per l’Impiego, scegliendo liberamente l’agenzia o l’ente di formazione. Il Centro per l’impiego, entro 15 giorni, deve decidere se rilasciare o meno l’assegno, dopo le verifiche. Se la domanda viene accettata, si deve elaborare il Patto di servizio personalizzato e il programma di ricerca intensivo. A quel punto il disoccupato deve partecipare agli incontri concordati e deve accettare le offerte congrue di lavoro ricevute. Se rifiuta può andare incontro a sanzioni che partono da una prima riduzione dell’assegno e arrivano alla sua perdita totale.

L’assegno di ricollocazione va da mille a 5mila euro se il disoccupato trova un nuovo impiego a tempo indeterminato, apprendistato compreso. Da 500 a 2.500 euro se firma un contratto a termine di almeno 6 mesi.

L’entità dell’assegno varia anche a seconda della difficoltà di reinserimento occupazionale dell’interessato, stabilita nella fase di profilazione. Si tiene conto, tra l’altro, di età, sesso, livello di istruzione, collocazione geografica, precedente esperienza lavorativa.

L’importo dell’assegno non viene erogato alla persona disoccupata, ma al soggetto che prende in carico il lavoratore; viene corrisposto solamente a risultato occupazionale acquisito, cioè alla firma del contratto subordinato.

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Ne bis in idem in materia di Market Abuse

A cura della Dott.ssa Marsela Mersini

Il principio del ne bis in idem (come inteso dall’art. 4 del Protocollo n. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo) stabilisce che “nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato.”

In materia di market abuse il principio interessa non solo in relazione agli illeciti penali, ma anche con riferimento al procedimento amministrativo nel caso in cui la sanzione che lo conclude, abbia natura sostanzialmente penale. In relazione alla gerarchia delle fonti del nostro ordinamento, il principio del ne bis in idem trova riconoscimento anche all’interno del diritto dell’Unione europea, precisamente all’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali (CDFUE) il quale afferma che “nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge.”

A livello nazionale l’art. 649 del c.p.p. costituisce la trasposizione, in ambito penale, del divieto di doppio giudizio citato dalla Convenzione in quanto stabilisce che l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanze, salvo quanto disposto dagli articoli 69 comma 2 e 345.”

In questo quadro si comprende, quindi, come tale principio rappresenti sia a livello internazionale, sia a livello europeo e sia a livello nazionale un inderogabile principio di civiltà giuridica e che non vi sia, tra i diversi livelli, una divergenza contenutistica quanto, per lo più, una differenza interpretativa.

Sulla base della contrapposta volontà degli Stati membri, che intendono applicare entrambe ed in forza della formulazione letterale dell’art. 4 del Protocollo n. 7 (che opera un espresso richiamo alla “condanna penale” e alla “procedura penale”) deve ritenersi pienamente legittima la sovrapposizione di una procedura sanzionatoria di carattere amministrativo e di un procedimento penale per lo stesso fatto illecito, non trattandosi di una duplicazione del giudizio penale.

Il diritto a non essere puniti (ne bis in idem sostanziale) o giudicati (ne bis in idem processuale) più volte per lo stesso fatto coinvolge principi fondamentali di civiltà giuridica[1], quali l’interesse alla certezza del diritto, le garanzie individuali degli imputati e l’economia processuale[2].

La nuova disciplina eurounitaria dei market abuse prevede, a tutela dei mercati finanziari, sia sanzioni penali, imposte dalla Direttiva 2014/57/UE, che sanzioni amministrative imposte dal Regolamento UE N. 596/2014.

Il sistema sanzionatorio disciplinato dalla Direttiva e dal Regolamento deve essere coordinato con i principi della Convenzione in tema di ne bis in idem.

La normativa europea, anziché armonizzare le norme applicabili, lascia, invece, tale delicato compito alle scelte discrezionali dei singoli Stati membri generando numerose complicazioni. Indipendentemente dagli approdi giurisprudenziali della Corte europea dei Diritti dell’Uomo e della Corte di Giustizia concernenti il principio del ne bis in idem, si prospetta l’apertura di una procedura di infrazione nei confronti dell’Italia per mancato recepimento del diritto dell’Unione europea.

Sul punto, l’unica difesa del trasgressore riguarda la necessaria attenzione da porre a tale principio, che va a discapito di una maggiore celerità ed efficacia dei procedimenti, in quanto il procedimento amministrativo, libero dalle “formalità” penali, viene ritenuto maggiormente rapido rispetto al procedimento penale. Lo scenario descritto in merito al principio del ne bis in idem è oggi mutato a seguito della sentenza della Corte EDU A e B c. Norvegia. Tale pronuncia rappresenta un self-restraint da parte della Corte di Strasburgo che ritiene utilizzabile una nuova chiave di verifica per la sussistenza di una violazione del divieto di doppio giudizio nell’ordinamento interno di uno Stato membro.

Nel caso in cui, in relazione allo stesso fatto, siano state comminate sia sanzioni penali che amministrative, esse possono coesistere qualora sussista tra loro “una connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta”.

Da ultimo alla sentenza della Corte EDU A e B c. Norvegia è seguita la sentenza della Corte di Lussemburgo del 20 marzo 2018 con la quale la Grande Sezione della Corte UE è intervenuta nuovamente sul principio del ne bis in idem in relazione alla corretta interpretazione dell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La pronuncia aveva ad oggetto controversie che vedevano contrapposte la Consob e cittadini italiani riguardo alla legittimità di sanzioni amministrative pecuniarie irrogate per violazioni di norme in materia di abusi di mercato.

Chiariti i contenuti dell’art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, e l’applicabilità della norma al caso di specie, la Corte ha elaborato il seguente principio: “il cumulo di procedimenti e di sanzioni di natura penale ed amministrativa può essere giustificato qualora tali procedimenti e tali sanzioni perseguano, ai fini del conseguimento di un simile obiettivo, scopi complementari riguardanti, eventualmente, aspetti diversi del medesimo comportamento illecito interessato, circostanza che spetta al Giudice del rinvio verificare”.

Tuttavia la Corte stabilisce che il cumulo di procedimenti e di sanzioni previsto da una normativa nazionale “non ecceda i limiti di ciò che è idoneo e necessario al conseguimento degli scopi legittimi perseguiti da tale normativa, fermo restando che, qualora sia possibile una scelta tra più misure appropriate, si deve ricorrere alla meno restrittiva e che gli inconvenienti causati dalla stessa non devono essere sproporzionati rispetto agli scopi perseguiti”, sottolineando quindi come il doppio binario deve pur sempre garantire il rispetto del principio di proporzionalità.

 

 

 

 

[1] La Corte Costituzionale ha definito il principio del ne bis in idem come un “principio di civiltà giuridica” (così C. Cost., ord. 4-5 maggio 1995, n. 150).

[2] In tal senso, Corte Cost. 21 novembre 2006, n. 381; 16 luglio 2004, n. 230; 20 giugno 2008, n. 219.

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Rottamazione bis

A cura del dott. Paolo Strangio

Con il decreto fiscale collegato alla manovra di Bilancio 2018 (DL 148/2017), si sono ampliati i termini per la rottamazione 2017  dettata non molto tempo fa dall’art. 6  (DL 193/2016) la quale permette l’estinzione del  debito senza corrispondere le sanzioni e gli interessi di mora ex art. 30 co. 1 dpr n. 602/1973 .

I soggetti che possono usufruire di tale agevolazione sono:

  • I destinatari di carichi affidati alla riscossione dal 2000 al 2016 che non hanno presentato domanda alla precedente rottamazione (quella per cui la domanda scadeva il 21 aprile 2017)
  • I destinatari di carichi affidati alla riscossione da gennaio a settembre 2017,
  • I contribuenti che avevano già presentato richiesta di adesione alla prima rottamazione ma che se la sono vista respingere perché avevano piani di dilazione in corso al 24 ottobre 2016 e non erano in regola con il pagamento delle tranche al 31 dicembre dello scorso anno.

Entro il 31 marzo 2018, l’agente della riscossione dovrà comunicare ai contribuenti l’ammontare dai carichi definibili e precisamente i carichi affidati ma non notificati. I contribuenti che vogliono aderire a tale agevolazione  devono presentare domanda entro il 15 maggio 2018.

L’Agenzia delle Entrate-Riscossione ha due diverse scadenze per la comunicazione al contribuente: entro giugno 2018 invierà la comunicazione delle somme dovute indicate dal contribuente.

Per quanto riguarda la rateazione invece verrà predisposta nella seguente maniera: i carichi possono essere dilazionati in un numero di rate massimo a 5, aventi le seguenti scadenze: luglio, settembre, ottobre, novembre 2018 e febbraio 2019.

Si ricorda che chi non paga le rate o chi paga in misura ridotta o in ritardo, perde i benefici previsti della definizione agevolata. Gli eventuali versamenti effettuati saranno, comunque, acquisiti a titolo di acconto dell’importo complessivamente dovuto.

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EFFETTI BREXIT : CONSEGUENZE PER GLI SCAMBI CON IL REGNO UNITO

A cura dell’avv. Marco Masante

L’esito del noto referendum, consultivo e non vincolante, sulla permanenza del Regno Unito all’interno dell’Unione Europea, svoltosi il 23 giugno 2016, ha visto voti favorevoli all’uscita dalla UE per il 51,9 % contro il 48,1 % per rimanere nell’UE. Tale esito, attualmente effettivo solamente sul piano politico, apre scenari inaspettati per i futuri rapporti internazionali ed in particolare per gli scambi commerciali tra l’UE ed il Regno Unito.

Un aspetto rilevante è quello dell’incertezza sugli aspetti legati al trasporto di merci e come tali rapporti commerciali potranno essere regolati, sia perché i tempi di negoziazione dell’uscita possono protrarsi a lungo, sia perché è la prima occasione in cui si verifica un caso di volontà di uscita dal mercato unico. (1)

Un primo effetto che si potrebbe verificare riguardo alle merci è relativo ai diritti di confine e, in particolare, i potenziali dazi doganali che potrebbero essere imposti all’atto delle importazioni nell’UE di merce proveniente dal Regno Unito, e viceversa. (2) Giuridicamente la prima e più importante conseguenza dovrebbe essere quella di un ripristino delle barriere doganali con l’Unione Europea, con la conseguenza che le movimentazioni dei beni in partenza dalla UE e destinati ad andare nel Regno Unito (e viceversa) perderanno la loro natura di cessioni o acquisti intracomunitari, ripristinando la situazione esistente al 31 dicembre del 1992, che le qualificava come operazioni di esportazione o importazione.

Sul piano procedurale, il nuovo assetto determinerà, sia per l’esportatore, che per l’importatore, l’obbligo di presentare per ogni operazione di movimentazione di merci una specifica dichiarazione doganale, per far circolare liberamente dette merci in un singolo mercato o per assoggettarle a particolari regimi di manipolazione o trasformazione.

Già durante la fase negoziale per definire l’uscita dall’Unione il Regno Unito dovrà manifestare le scelte politico-economiche sulla cui base sarà determinato il suo nuovo assetto del sistema doganale. Infatti, se la nuova fiscalità degli scambi commerciali con i Paesi UE dovesse prevedere l’imposizione di dazi doganali, nuove procedure, onerosi controlli e il pagamento in dogana di un’IVA elevata, questo avrebbe pesanti riflessi economici e finanziari per le imprese e i consumatori, che vedrebbero inevitabilmente aumentare il prezzo dei prodotti: ne consegue che le scelte negoziali dovrebbero tendere a privilegiare il raggiungimento di un punto di equilibrio degli interessi del Regno Unito e dell’Unione Europea il più possibile vicino alla situazione preesistente.

D’altro canto l’uscita del Regno Unito dall’Unione Doganale Europea renderà più semplici i rapporti tra UK ed alcuni paesi Terzi, come ad esempio gli Stati Uniti, soprattutto il relazione ai divieti tariffari e alla esigenza di tutelare la produzione. I primi commentatori reputano che contro una modesta contrazione e limitazione dei costi saranno sicuramente fondamentali le consulenze, soprattutto doganali, a favore dei soggetti italiani che reputeranno di poter restare in UK anche post Brexit.

L’eventuale aumento degli oneri, anche doganali, nei rapporti commerciali con le realtà britanniche costituisce sicuramente il rovescio di tale medaglia per le imprese italiane, che può divenire tuttavia opportunità di crescita.

Le difficoltà che le nostre imprese dovranno affrontare nei rapporti con l’Inghilterra sarebbero infatti condivise con le altre aziende dell’UE. Inoltre, Londra è da tempo riconosciuta come capitale europea dell’innovazione, catalizzatrice di ingenti investimenti per start-up, progetti di ricerca e aziende innovatrici in diversi ambiti. Non essendo più una capitale dell’Unione Europea, Londra lascerebbe un posto vacante come fulcro degli investimenti nel Mercato Interno.

Ulteriori conseguenze potrebbero presentarsi anche su un piano non tariffario. Si pensi ad esempio, tra tutte, alle norme che disciplinano la proprietà intellettuale: all’interno dell’Unione Europea vige un sistema unificato che regola la registrazione e la protezione di marchi, brevetti e copyright dei suoi stati membri; si pensi inoltre alle norme in materia di sicurezza dei dati: il trattamento e la conservazione dei dati personali sono normati da una legislazione europea organica, stabile e coerente con le politiche comunitarie perseguite negli ultimi anni.

Come si regoleranno i rapporti con il Regno Unito anche in tali ambiti? È infatti probabile che si avranno sempre di più normative divergenti che potranno limitare le operazioni di importazione ed esportazioni di beni o servizi.

Sul fronte politico recentemente si registra un discorso alla Coventry University tenuto da Jeremy Corbin, il leader del Labour Party esprime il suo giudizio favorevole ad un’Unione doganale con la Ue, come sperimentato anche da Norvegia, Svizzera e Turchia, creando così le condizioni perché si formi una maggioranza alternativa nel parlamento britannico. Proposta respinta ancora da Theresa May perché, secondo la premier britannica, tale soluzione limiterebbe il potere della Gran Bretagna di stringere nuovi accordi commerciali con altri paesi in seguito all’uscita del Regno Unito dall’UE prevista per marzo 2019.

Lo Studio Occari & Garbo anche quale Temporary Export Manager Professionale (“TEM”) assisterà le aziende esportatrici e gli italiani titolari di aziende in UK, nei vari adempimenti, come per esempio: la gestione dei dati sensibili e della privacy, l’applicazione di dazi doganali, l’inclusione di nuove direttive sulla gestione delle spedizioni ed eventuali nuove tipologie di controlli alle frontiere.

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[1] B. Ferroni, “Brexit: i nuovi scenari del diritto doganale e degli scambi commerciali”, In Il fisco n. 31 del 2016, pag. 1-3007.
[2] B. Santacroce, E. Sbandi, “Dogane ed effetto Brexit: prospettive di pianificazione e questioni aperte”, In Corr. Trib., n. 37/2016, pag. 2833-2837.
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Il Collegio sindacale nelle banche e negli intermediari finanziari. Competenze.

A cura del dott. Diego Occari.

Il collegio di una banca o di un intermediario finanziario opera in un contesto di ipernormazione. In quanto alle ordinarie regole del diritto commerciale applicabili ad una società si aggiungono a stratificazione le disposizioni speciali del testo unico bancario, quelle del testo unico sulla finanza e le specifiche relative disposizioni di vigilanza emanate dalla Banca d’Italia e dalla Consob.

In tale contesto un efficace collegio sindacale, deve fin dal momento del proprio insediamento, attuare una mappatura delle normative applicabili alla banca o all’intermediario, che possono variare moltissimo da caso a caso, a seconda della tipologia di autorizzazione in possesso della società vigilata e delle attività concretamente svolta.

Tale delicatissima attività preliminare è senza dubbio essenziale per poi poter attuare le verifiche di conformità alle legge e alle disposizioni di vigilanza, nonché per valutare l’efficacia del sistema dei controlli interni.

Le verifiche da svolgere, la loro frequenza e intensità e la loro estensione varieranno quindi a seconda della tipologia di intermediario. Diversi saranno quindi i controlli da attuare su un IMEL da quelli relativi ad un 106, oppure da quelli relativi ad una SGR o ad una Banca. E anche all’intero della medesima categoria di intermediario ancora una volta diversi saranno i controlli da attuare a seconda dell’esposizione ai rischi concretamente riscontrata.

Una volta mappate le disposizioni applicabili e comprese le procedure interne, sarà compito del collegio sindacale verificare il rispetto delle norme e della regolamentazione interna, partendo eventualmente dai verbali interni delle funzioni di compliance ed internal audit, allo scopo di individuare eventuali irregolarità gestionali o anomalie andamentali, nonché al fine di individuare eventuali lacune degli assetti organizzativi e contabili. Così da comprendere cause e individuare possibili rimedi da proporre all’organo amministrativo. In un ruolo di collaborazione attiva alla concreta risoluzione dei problemi.

Nel merito le disposizioni di vigilanza chiariscono che la concreta determinazione dell’intensità e delle modalità delle verifiche da condurre nonché nella valutazione delle irregolarità riscontrate devono essere tenute in considerazione dal collegio sindacale per individuare sia la rilevanza delle perdite che potrebbero derivarne per l’intermediario sia le eventuali ricadute in termini di rischio reputazionale.

I controlli del collegio sindacale di un intermediario devono essere trasversali, e devono:

  • riguardare tutta l’organizzazione aziendale;

  • includere verifiche in ordine ai sistemi e alle procedure (es. quelli informativi e amministrativo-contabili);

  • coprire i diversi rami di attività (dal credito alla finanza, secondo la tipologia delle attività svolte e la mappatura dei rischi effettuata).

Sulle aree operative, i controlli del collegio sindacale devono dedicare speciale attenzione alle iniziative di introduzione di nuovi prodotti, all’ingresso in nuove aree di business o geografiche, alla permanenza nel tempo della continuità operativa, e alla esternalizzazione dei servizi essenziali.

Di particolare rilevanza sono:

  • le attività di verifica sulle operazioni in conflitto di interesse e sulle operazioni con parti correlate;
  • il corretto controllo svolto dalla capogruppo sulle società del gruppo.

Le disposizioni di vigilanza pongono in particolare risalto il rispetto da parte del collegio sindacale degli obblighi di comunicazione alla Banca d’Italia in merito a irregolarità gestionali o violazioni della normativa. Principio questo, stabilito dall’art. 52 del Testo Unico Bancario.

Va infine ricordato che, anche quando il controllo contabile viene svolto da un revisore esterno, il collegio sindacale conserva compiti connessi con la valutazione dell’adeguatezza e della funzionalità dell’assetto contabile, ivi compresi i relativi sistemi informativi, al fine di assicurare una corretta rappresentazione dei fatti aziendali.

Per coloro che lo desiderassero, il Dipartimento Corporate Finance dello Studio Occari & Garbo, con il suo team di sindaci specializzati in intermediari finanziari fornisce su richiesta attività di due diligence per intermediari finanziari e banche.